Quando, dopo diversi mesi dalla morte di papà, trovammo la forza di rientrare a casa, in via della Scrofa, ricordo di aver sentito come mai prima il suo profumo in ogni cosa.
Papà odorava di sigarette, caffè e dopobarba. Sempre. Dalla mattina alla tarda notte quando, tra una pausa dal lavoro e un toast al formaggio, si avvicinava al mio letto per sincerarsi che stessi dormendo.
Quella sera però la piccola casa del centro che profumava di papà era tristemente e inesorabilmente vuota. Mi aggiravo stordita per il soppalco che ospitava il suo studiolo, guardavo la sua scrivania, la macchia di caffè sul verde del portadocumenti, il grande cane di peluche appoggiato sul divanetto di stoffa.
Non era cambiato nulla dall’ultima volta che ero stata lì. Eppure tutto era così privo di senso.
Gli innumerevoli quadri che ricoprivano ogni millimetro delle pareti mi sembravano sconosciuti, i paesaggi ritratti distanti, i soggetti immortalati nemici. E poi c’era il dipinto di un uomo accasciato a terra. Nella mia mente immaginai la sua mano tesa in cerca di aiuto e pensai agli ultimi attimi di vita di papà. Il suo corpo imprigionato nell’abitacolo della Bmw, le lamiere distorte dall’impatto, il sangue che colorava la tappezzeria candida. Cosa mai avrà pensato incontrando la morte?
L’aria è ferma. Una cappa afosa soffoca quasi il respiro.
Sulla costiera squarciata dalla statale 18 i fichi d’india, che come un miracolo della natura fendono la roccia, sono maturi e i bambini li raccolgono nei secchielli, tra un tuffo e l’altro.
È il 9 agosto del 1991. È da poco passato mezzogiorno, quando un urlo violento scuote i bagnanti del lido Il Gabbiano: «Andate via, correte a riva! È per me, è una bomba!».
Ultimamente, raccontano, è più teso di una corda di violino. La sua preoccupazione e la sua amarezza sono già emerse in diversi frangenti, in episodi che lasciano trasparire un’ansia sempre più acuta, sempre meno controllabile.
Alla fine di luglio, a Roma, esorcizzava il timore con una battuta e un sorriso. A chi gli chiedeva: «Adesso tra quanto la cambierai questa macchina?» (una nuovissima Bmw 318 color blu notte, consegnatagli in concessionario il 20 luglio), rispondeva: «Cambiarla? Io in questa macchina ci muoio».
Qualche giorno più tardi, intorno ai primi di agosto, non faceva mistero del suo stato d’animo, confidando ad alcuni amici i suoi timori per il maxiprocesso che, come vedremo, aveva capito essere la sua condanna a morte.
«È un’apocalisse» ripeteva.
modo di guidare sia dovuto a un malore.
Quella stessa sera, volle sentire d’urgenza Rosanna, che si trovava in vacanza con la mamma e i nonni. Le fece delle bizzarre raccomandazioni, del tipo «mangia tanta tanta cioccolata», «fatti crescere i capelli», «promettimi che farai la brava».
Alla moglie Anna Maria, che nella stessa conversazione chiese spiegazioni circa il suo evidente stato di tensione emotiva, parlò di «cose grosse, grossissime».
E poi quella mattina, due giorni più tardi. Quel grido, «andate via, è una bomba», lanciato con disperazione tra gli scogli. Fortunatamente è solo un sacchetto di plastica, immondizia forse lasciata da uno scafo da poco passato di lì. Ma la memoria di Nino, forse, corre al fallito attentato dell’Addaura contro il collega Falcone, quando il 20 giugno del 1989 erano pronti a esplodere ben trentotto candelotti di dinamite non appena questi si fosse calato in acqua per un bagno, lì nella spiaggetta della villa presa in affitto dal giudice palermitano per le ferie estive.
Poche ore più tardi verrà ucciso.
"PRIMO SANGUE", DA OGGI IN TUTTE LE LIBRERIE D'ITALIA
Ogni diffusione su altri siti e/o testate è consentita citando espressamente la fonte (www.ammazzatecitutti.org) e l'opera.