A Nino, Alessandra e Giovanna.
Ci sono diverse espressioni che ho provato e provo a spiegare con parole semplici agli studenti delle tante scuole italiane che ho incontrato nel corso di questi ultimi dieci anni.
Una di queste è “senso del dovere”: espressione spesso utilizzata da noi addetti ai lavori per qualificare, per “dare un senso”, al sacrificio personale di chi ha messo in gioco ogni molecola di se stesso per servire una causa, ad esempio i giornalisti e fotoreporter morti per raccontare al mondo con le proprie penne e l’occhio di obiettivi fotografici e videocamere le terribili scene dei teatri di guerra, o chi, come gli uomini e le donne al servizio del Paese nelle istutuzioni militari e civili, muore nell’esercizio delle sue funzioni, nell’adempimento del proprio dovere.
Ai tempi del liceo la professoressa di latino ci ha insegnato che la parola “dovere”, usata sia come verbo che come sostantivo, deriva dall’infinito del verbo “debere”, a sua volta composto dal “de” che sta per “da” e “habere” cioè avere, ovvero ottenere da qualcuno un qualcosa che si dovrà restituire.
Ciascuno di noi, cittadino italiano perché figlio della Repubblica e custode civico della Costituzione, ha dei diritti e dei doveri da assolvere: non esistono diritti laddove non vi siano doveri, e viceversa.
Una parola spesso associata anzi, oserei dire imprescindibilmente associata all’espressione “senso del dovere” è “abnegazione”, ovvero, rinuncia, sacrificio di sé. Infatti l’adempimento del proprio dovere può giungere anche al sacrificio di se stessi.
E se per taluni il senso del dovere può essere inteso anche solo come insieme di valori e ideali che devono muovere l’agire di ciascuno lasciando comunque al suo arbitrio (direi meglio alla sua coscienza) stabilire i confini del proprio sacrificio personale, vi sono alcune categorie sociali che sul dovere giurano fedeltà, anche al costo della propria stessa vita: è il cosiddetto “dovere militare”, tipico dell’Arma dei Carabinieri e dei corpi militari.
Per un militare, per un carabiniere, e in genere per ogni “servitore dello Stato” (altra espressione che mi trovo spesso a dover spiegare agli studenti) il dovere è una sorta di legge morale che si attua nei confronti del prossimo, ma anche apertura solidale verso i diritti dei nostri simili, perché senso sel dovere è la salvaguardia dei diritti di tutti, garantendo sicurezza e libertà alla collettività.
Senso del dovere, quindi, non è solo legge morale ma categoria dell’anima, in quanto coniuga sacrificio ad altruismo, rinuncia all’utile per il difficile, naturale propensione al servizio prima che alla carriera.
Siamo a ferragosto, giornata dedicata alla famiglia, agli amici, alle grigliate, al cocomero, alle meritate ferie. Alzino la mano quanti di noi oggi sarebbero disposti ad aiutare non dico un estraneo, ma un parente, un amico, in difficoltà: non siamo ipocriti… nessuno, o quasi. Compreso il sottoscritto.
Ebbene, da cittadino del Sud e da giovane da anni impegnato per tessere le maglie del dialogo tra i cittadini e le Istituzioni, sono orgoglioso dell’esempio che proprio un anno fa ci è stato lasciato da un grande carabiniere, il colonnello Cosimo Fazio.
Fazio è stato negli anni più terribili e bui della lotta alla ‘ndrangheta, i sanguinosi settanta e ottanta delle faide di Cittanova, Polistena, Taurianova, e via discorrendo in quella Piana di Gioia Tauro che oggi torna al centro delle cronache nazionali per “inchini” e quantaltro, uno dei più acuti investigatori, ma anche coraggioso – come si suol dire – uomo in azione, “sul campo”.
Per capire di che pasta fosse fatto il colonnello Fazio basta chiedere a magistrati come Salvo Boemi, che lo volle sempre al suo fianco nelle più delicate e difficili indagini di polizia giudiziaria in tutta la provincia di Reggio Calabria, o ai tanti carabinieri che hanno lavorato con lui: uno di questi, oggi maresciallo e comandante di stazione, mi raccontò di un conflitto a fuoco nel quale si trovò coinvolto con l’allora capitano Fazio, comandante della compagnia di Taurianova. Erano in grande difficoltà, perchè lontani dall’autovettura di servizio e quindi impossibilitati a chiedere rinforzi. Il giovane carabiniere si propose di correre verso l’auto e inoltrare la richiesta d’aiuto alla radiomobile, ma Fazio, per non esporre il suo uomo ad ulteriori rischi, decise che avvrebbero affrontato da soli il conflitto a fuoco. Ditemi voi se non è questo senso del dovere, inteso come dovere di proteggere il proprio giovane sottoposto, al costo anche della propria stessa vita.
Ho citato questo episodio, ma tanti altri ce ne sono che non basterebbe un libro per raccontarli. Così come prima o poi qualcuno dovrà rendere conto allo Stato italiano ed alla storia delle “punizioni” (“promoveatur ut moveatur”, direbbero i latinisti) date a Fazio per aver sfiorato nelle sue tante indagini, dei nervi scoperti, dei fili ad alta tensione. Ma questa è un’altra storia.
Oggi raccontiamo di quell’uomo, che un anno fa, da poco più di dieci giorni, aveva giurato da nuovo comandante della Polizia municipale di Reggio Calabria, e che per “senso del dovere” appena ricevuta la notizia di un imminente sbarco al porto della città dello Stretto di centinaia di migranti afgani e siriani, decise di recarsi sul posto per coordinare personalmente le operazioni di soccorso.
Pochi giorni prima era stato nostro ospite a Cannitello, per la settima edizione di “Legalitàlia”. I miei ragazzi pendevano totalmente dalle sue labbra: ci raccontò la storia di un bambino che aveva contribuito ad allontanare dalla famiglia dopo l’arresto per mafia del padre. Di quel bambino di circa sette-otto anni che girava per il paese con in mano una foto del padre promettendo “vendetta” e maledicendo quei carabinieri “cani”, quello Stato “bastardo”, “infame”, che gli aveva portato via il padre. Quel bambino che Fazio rivide qualche anno dopo l’allontanamento coatto dalla famiglia e che corse ad abbracciarlo e gli chiese come poter fare per diventare anch’egli carabiniere.
Come avrebbe mai potuto immaginare Cosimo Fazio che quel discorso, quelle parole pregne di carica etica e d’affetto paterno, sarebbero rimaste il suo testamento morale?
Lui che la divisa nera a bande rosse ce l’aveva cucita addosso e che non aveva neanche avuto il tempo di far prendere le misure per la nuova uniforme da comandante della Polizia municipale, il 15 agosto del 2013, con trentotto gradi all’ombra ed un’umidità tale da scoraggiare anche il più stoico degli stakanovisti, disse al figlio Antonino “andiamo”.
Ad operazioni di soccorso quasi ultimate il suo cuore non ha retto, e Fazio è collassato in terra, tra le braccia del figlio, senza più rialzarsi.
Fazio quel giorno è andato ben oltre il suo dovere, ha agito seguendo la sua abnegazione, la sua coscienza. Se quello sbarco avvenisse oggi, con l’operazione militare e umanitaria “Mare nostrum”, a coordinare le operazioni ci sarebbero in loco la Prefettura ed in mare i militari della Marina. Vi sarebbero risorse, uomini, mezzi oramai rodati a gestire come ordinario lo straordinario (ad anche su questo dovremmo fare un ragionamento a parte circa il ruolo dell’Europa nell’emergenza umanitaria che il nostro Paese si trova ad affrontare da solo).
Siano ora quelle Istituzioni che Cosimo Fazio ha servito sino all’ultimo respiro a dare – mi si perdoni il gioco di parole – un senso al suo senso del dovere. Dovere militare, civico e umano dei quali il colonnello Fazio si è fatto inconsapevolmente testimone esemplare, con la propria vita e con il proprio sacrificio.
Aldo V. Pecora
presidente “Ammazzateci tutti”