Gentile Signor Ministro,
Autorità tutte,
signori e signore,
Vorrei iniziare questo mio intervento ringraziando tutti Voi per il significativo segnale che Palmi in questo giorno sta dando ai calabresi ed agli italiani tutti.
Da oggi, infatti, la solennità di questa importante aula scandirà anche nel nome di mio padre il passo di ogni 'ndranghetista, o presunto tale, che ne varcherà la soglia.
Un'aula che, d'ora in poi, tutti potranno metaforicamente intendere come simbolo di una Giustizia calata nella realtà e proiettata al futuro, ma con le radici ben piantate nella memoria di questa terra e del sacrificio di un calabrese libero, onesto e coraggioso.
Un magistrato integerrimo, un padre e marito affettuoso, un Uomo cui avete inteso tributare un imperituro atto di riconoscenza del quale personalmente Vi sarò sempre grata.
Oggi si parla tanto di 'ndrangheta. Spesso anche a sproposito. Però nessuno o quasi ricorda quel giudice calabrese ucciso a pochi chilometri da casa in una sera d'estate del '91, mentre rientrava dal mare. Senza scorta, perché la riteneva uno status symbol.
La sua uccisione segnò la fine della seconda terribile Guerra di 'ndrangheta, una guerra che aveva fatto piombare il territorio reggino in un periodo orribile: una scia di sangue – anche innocente – che farà contare quasi mille vittime in poco più di cinque anni.
Col sangue di mio padre, che aveva accettato di rappresentare la pubblica accusa in Cassazione nel cosiddetto “Maxiprocesso” contro Cosa Nostra, è stato siglato quello che la magistratura e le cronache del tempo definirono un “Patto di sangue” tra Cosa Nostra siciliana e la 'ndrangheta calabrese. Provarono a corromperlo, ma ovviamente non si piegò ed andò incontro al proprio destino a testa alta. D'altra parte, quella toga per lui era tutto. E per onorarla e rendere me orgogliosa di portare il suo nome, accettò di rischiare ogni estrema conseguenza delle proprie scelte.
Quella toga… la toga di Papà. A chi – vedendo le luci del suo ufficio al Palazzaccio accese fino a tarda sera – lo accusava di lavorare incessantemente, di prendere troppo sul serio il proprio lavoro, mio padre rispondeva sorridendo che la toga era la sua seconda pelle. Non era un inutile abito di rito, una consuetudine da osservare asetticamente. Quella toga papà la sentiva cucita addosso ogni giorno della sua esistenza.
E credo che questo sentimento accomuni tutti voi donne ed uomini di legge, che siate magistrati o avvocati, senza differenza alcuna.
Dietro la severità di ogni toga vi è la difesa di un diritto negato, la promessa di una giustizia certa ed equa, il riscatto di un singolo o di un popolo, una speranza per gli ultimi.
Ma non va dimenticato che sotto quelle stesse toghe, vi sono i sentimenti, le passioni, le debolezze di ogni essere umano.
Su ogni donna e su ogni uomo di legge grava il peso del raggiungimento della verità, e credo di interpretare il pensiero di molti se oso affermare che ogni donna ed ogni uomo di legge, più si avvicina alla verità e più soffre, perché dal proprio agire – sia questi difensore, requirente o giudicante – dipendono le sorti di intere famiglie. Di vittime e carnefici.
Sì, anche dei carnefici. Proprio il giudice Scopelliti sosteneva da sempre che dietro ogni criminale vi fosse una persona che ha sbagliato. Un caso umano, e che per questo motivo ogni singola vicenda giudiziaria avrebbe dovuto essere analizzata, compresa e per certi versi anche compatita.
Ciò detto, alle vittime va garantita certezza dell'espiazione della pena a carico di chi delinque, e vicinanza vera, tangibile da parte dello Stato, perché ogni qual volta un familiare di un morto ammazzato si vede di fatto costretto a contare solo sulle proprie forze per dare un senso al sacrificio dei propri cari, beh, è triste dirlo, ma si celebra non la memoria di un innocente, ma una atroce sconfitta per tutto il Paese.
E' una questione di civiltà, prima che di diritto e di leggi.
Per me è un orgoglio ed un onore aver unito la mia voce a quella dei ragazzi di “Ammazzateci Tutti”, grazie ai quali ho imparato ad accettare la pesante eredità di mio padre. Un'eredità morale che per molti, troppi anni, avevo accantonato in fondo al mio cuore senza speranza alcuna.
Ad Aldo Pecora in particolare (che con alcuni di quei ragazzi è presente oggi in quest'aula), devo fraterna riconoscenza, perché mi ha aiutata a conoscere ed accettare le scelte di mio padre, fino a scalare una enorme montagna, più grande di noi, nella ricerca della verità riguardo un delitto sepolto sotto quintali di polvere ed omertà.
Oggi possiamo dirlo: abbiamo constatato ed annotato nero su bianco innumerevoli ritardi, superficialità investigative e depistaggi circa l'assassinio di mio padre. Tutti fatti che hanno contribuito (e non so fino a che punto casualmente) in maniera determinante all'inabissamento del caso. Così come abbiamo, ad oggi, delle ipotesi di verità che potrebbero contribuire alla riapertura dello stesso. Ma è inaccettabile, Signor Ministro, che a sobbarcarsi tale peso sia stato un giovane poco più che ventenne, e non chi, anche all'interno della magistratura, ha preferito tenere le mani in tasca.
Perché il “teorema Buscetta” è crollato soltanto a Reggio Calabria? Perché il primo e forse unico sciopero organizzato dei pentiti in Italia è avvenuto proprio durante il processo Scopelliti? E perché, soprattutto, se di “patto di sangue” si è trattato, sono stati portati alla sbarra solo Riina, Provenzano ed i boss siciliani e non è mai stato istruito un processo uno per il versante calabrese, che sicuramente ha contribuito ed organizzato materialmente il delitto? Sono tutte domande retoriche che rivolgo provocatoriamente a me stessa, ed alle quali vorrei un giorno trovare risposta.
E mi scalda il cuore e al tempo stesso mi raggela il fatto che oggi ci troviamo qui nel profondo Sud, nella Piana di Gioia Tauro, comprensorio sempre caro a mio padre perché popolato da gente onesta ed umile, ad intitolare un'Aula a suo nome, mentre né a via Arenula né in Cassazione si è mai ipotizzato in questi anni di adottare una simile iniziativa. Un atto simbolico, per carità. Ma come sa, Ministro, spesso gli atti simbolici sono più utili e significativi di mille parole, perché e anche così che scriveremo e racconteremo ai nostri figli la storia e le storie di questo Paese e delle donne e degli uomini che lo hanno reso grande.
Mio padre non era un eroe, perché in un Ordinamento ed in un Paese che meritano di definirsi normali, un magistrato dovrebbe poter svolgere il proprio lavoro con la stessa serenità e dedizione di un impiegato, di un insegnante, di un operaio.
Spesso, invece, è a causa dello scarso coraggio dei molti, che italiane ed italiani come mio padre incarnano facilmente nell'immaginario collettivo i tratti fondamentali dell'essere eroe. Quando poco o nulla s'è fatto per proteggerli e – soprattutto – onorarne l'esempio nei giorni e negli anni a venire.
Papà non ha scelto di essere eroe, né Dio sa quanto possa averlo scelto (e metabolizzato ancora oggi) io.
Mi perdonerete Voi tutti, dunque, se continuerò a non accettare questa definizione sino a quando al giudice Antonino Scopelliti ed al suo sacrificio non saranno finalmente rese giustizia e verità.
Lo auspico da figlia, ovviamente, ma ancor di più lo meritano questa terra e tutti i calabresi onesti.
Vi ringrazio.
Rosanna Scopelliti
(20/02/2012)